lunedì 22 febbraio 2010

QUANDO LE RADICI di Lino Aldani

Il romanzo è ambientato in un’Italia totalmente trasformata: quasi l’intera popolazione vive in poche enormi megalopoli (la Milano che si estende ormai fino al confine svizzero, la Firenze-Prato, l’enorme Roma-Civitavecchia, la Genova che occupa ormai l’intera Liguria etc…) mentre tutti le altre cittadine o paesi di campagna sono stati distrutti e trasformati in una immensa distesa agricola a produzione ultra-intensiva, secondo la politica della cosiddetta agricoltura industrializzata. Sullo sfondo, mai descritto esplicitamente, si intuisce la presenza di un potere politico forte e misterioso… nell’opera si accenna talvolta ad una rivoluzione, si usa l’appellativo “compagno”, si maledicono i “governanti ladri che di comunista non hanno più niente”, la produzione agricola è gestita da cooperative che nella realtà sono però proprietà di pochi privilegiati: il tutto fa pensare ad una rivoluzione fallita, un tentativo di governo socialista naufragato e che ha tradito le aspettative di molti (forse è lo stesso autore, con esperienze partigiane e dichiaratamente di sinistra, a parlare, denunciando il fallimento del “socialismo reale”).
Il protagonista del romanzo è Arno Varin, un giovane di quasi trent’anni che vive nella megalopoli romana e lavora come impiegato presso l’Istituto Centrale Urbanistico controllando schede perforate per cinque ore consecutive, senza sapere, come tutti del resto, il significato del suo lavoro ed il ruolo dell’Istituto stesso. Arno è l’archetipo del lavoratore estraniato, perfetto ingranaggio del potere, succube di una vita monotona e grigia, la cui volontà è annebbiata dalle lusinghe dell’alcool e del sesso facile che la società regala a tutti. Il dubbio, la domanda che nessuno si è mai posto, a cosa serviranno mai le schede perforate che per ore deve controllare, è l’interruttore che fa scattare la vita di Arno, che decide di lasciare Roma per trasferirsi in ciò che rimane di Pieve Longa, il minuscolo paesino in cui ebbe i natali. Ma i mostri della sua vita precedente lo raggiungeranno anche nel suo eremo, da cui dovrà fuggire e iniziare, per la seconda volta, una nuova vita.
Arno, il protagonista, è l’uomo in fuga dall’omologazione, dalla massificazione, dall’esistenza annebbiata dai frutti che la scienza e la tecnologia hanno donato all’uomo privandolo però del contatto con la terra e la natura, di rapporti interpersonali veri, contrapposti alla finzione all’ipocrisia della vita sociale metropolitana, che Arno ritrova nella piccola comunità di anziani che ancora si ostina a vivere a Pieve Longa. E’ tra questi vecchi rudi contadini, trogloditi senza acqua corrente né elettricità, che se ne fregano della notizia dello sbarco su Marte annunciata dalla radio, che Arno riprende realmente a vivere.
Il romanzo non è particolarmente ricco di idee o di spunti innovativi: l’Italia del futuro tratteggiata dall’autore si differenzia dal suo, e fondamentalmente anche nostro, presente solo per l’urbanizzazione massiccia che ha cambiato la geografia del paese e il tema trattato, il disagio di fronte alla modernità e alla vita artificiale condotta nelle grandi città, non è certamente nuovo. L’opera costituisce comunque una lettura gradevole e interessante per l’italianità dell’autore e dell’ambientazione.

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